OMAGGIO A GABBRIS E MARTINO FERRARI

19 MARZO 2023 – TEATRO STUDIO | Rovigo

Il lavoro vuole essere un omaggio poetico a due figure importanti della vita culturale della città: Gabbris e Martino Ferrari.

Gabbris Ferrari è stato senza dubbio una delle figure più significative e poliedriche del dopoguerra polesano. Artista figurativo, scenografo, regista e fondatore della compagnia polesana Minimi Teatri, docente all’Accademia di Belle Arti, ma anche politico e animatore culturale del territorio. Morto nel 2015, a Rovigo ha lasciato molti spazi urbani progettati da lui stesso: il Teatro Studio, spazio per la sperimentazione teatrale ricavato da un capannone degli autobus; la Pescheria Nuova, spazio espositivo nato da una vecchia Pescheria del centro; il Museo dei Grandi Fiumi progettato all’interno del Chiostro degli Olivetani, dedicato alle origini antiche di questa terra.

Martino Ferrari è stato il fondatore, assieme a Massimo Munaro, del Teatro del Lemming. Regista, scenografo, poeta, laureato all‘università di Ferrara e ricercatore presso il sito archeologico di Isernia, muore nel 1993, a soli 28 anni.

Quest’omaggio vede in scena alcuni artisti, amici di Martino e Gabbris, che condivideranno in presenza parole, poesie, musiche, frammenti di teatro che evocano o che sono appartenuti al vissuto-poetico teatrale di queste due figure.

 

Commenti (5)

  • Martino

    Martino…
    Personalità liquida e solida allo stesso tempo.
    Durante le indimenticabili serate trascorse in compagnia, quando non c’era, si avvertiva subito e ci si chiedeva: e Martino, e Martino, e Martino???Quando c’era, la sua presenza si propagava come il calore di un raggio di sole.
    Martino era una persona semplice e profonda con lo sguardo amorevole verso l’altro, verso una pianta di ciclamino, verso un gatto.
    A teatro lo vedevo trasformarsi e insieme a Massimo hanno trasformato la mia idea di teatro, da loro ho conosciuto un patto nuovo tra artista e spettatore. Essere stata sua amica ha ingrandito il mio sguardo e il mio sorriso. Lì dentro vive il ricordo che ho di lui.

  • Mi viene in mente quella foto di scena, scattata da Roberto durante il Faust.
    Martino, con i capelli pettinati all’indietro, gli occhiali scuri e quella sua risata particolare che ancora sento risuonare.
    Dietro a quelle lenti scure i suoi occhi dallo sguardo buono, attento, che a volte andava in una dimensione che era solo sua.
    Sapeva ascoltare e senza bisogno di molte parole faceva sentire compresi, accolti.
    Mai un giudizio da parte sua, ma tanti punti di vista possibili e lucidi su una stessa cosa…”Martino, così mi confondi…”
    Sono tante e ancora vivide le immagini che ho di lui, sia nei momenti trascorsi insieme tra amici, che in quelli condivisi in teatro.
    Come quando, nello spettacolo La città chiusa, c’era il momento in cui gli attori dovevano lasciare la scena, strisciando sul palcoscenico.
    Martino e Roberto, protetti dal buio e dalla musica, arrivati alle quinte iniziavano a fare i buffoni tra loro, coinvolgendo noi che eravamo dietro e costringendoci a trattenere a fatica le risa…”come sta andando lo spettacolo?…”
    Il suo video, girato nella casa dove vivevamo Roberto ed io, rimasto purtroppo incompiuto.
    In una scena dovevo essere inquadrata anch’io che piangevo. Come fare?pensare a qualcosa di brutto, non serviva, non sono un’attrice, “…dai proviamo con la cipolla, no non è abbastanza, mettiti il limone negli occhi, dai…funziona!! …accidenti Martino e adesso… quando mi passa sta roba?”
    Impossibile non volergli bene, non essere grata per esserci stato nella mia vita, anche se per un tempo troppo breve.
    Impossibile non provare una struggente nostalgia.
    Mi chiedo spesso come sarebbe, ora.
    Lo immagino con una gran testa di capelli bianchi, come Gabbris, con il suo sguardo dolce, la sua camminata riconoscibile.

    “Partirò per sperimentare nuove solitudini…”

  • Martino
    Raccontare qualcosa su Martino, dopo così tanti anni. Non posso dire si tratti di una richiesta inaspettata, forse io per prima lo aspettavo da tanto tempo perchè Martino e Corinna nei miei pensieri ci sono stati in maniera pressochè costante, venivano fuori nei racconti, nei ricordi, nelle cose che scrivo.
    Sono passati tanti anni, la vita ha costruito in chi è rimasto così tanti ricordi, ma loro sono rimasti lì, cristallizzati, presenze leggere che hanno continuato a tessere reti di relazione nonostante non ci fossero più qui, in questo nostro mondo. Martino è stato per me la persona che dava senso e valore alle cose, in una fase della vita in cui tutto iniziava a costruirsi e sembrava possibile.
    Due giovani che volevano non cambiare, ma capire il mondo, studiando, facendo ricerca, sporcandosi le mani nella terra degli scavi, entusiasmandosi per un’idea che poteva essere confermata e diventare scoperta, teoria, interpretazione.
    Lavorare in uno scavo archeologico, partecipare a missioni e convegni all’estero, ti porta a condividere tanti tempi e spazi da mettere in condivisione più di quanto accada nei comuni ambiti professionali. C’erano le albe sul deserto della Giordania, le perle di amazzonite da cercare nella sabbia e tra le rocce dello Wadi Rum, il cuore che batteva forte quando presentavi un lavoro di fronte ad una platea di scienziati ben più esperti di noi, i racconti attorno al fuoco dietro le casette di Isernia, i fogli sparsi su tavoli diversi a cercare di mettere assieme le idee per arrivare a conclusioni condivise, i treni e la stanchezza, le persone nuove e gli studenti da seguire.
    Un mondo insomma, il nostro, progetti di futuro che da una parte spaventavano e dall’altra entusiasmavano. Su questo il suo sguardo verde bottiglia, un po’ sfuggente, assorto, timido, accogliente. Mi capitava di cercarlo quello sguardo perchè era come un barometro di ciò che stava succedendo, dava la misura o la conferma, mi ci aggrappavo, conferiva un senso e se non c’era, lasciava il vuoto. La mattina se arrivavo in università lo cercavo alla sua scrivania e allora la giornata poteva iniziare, di sicuro sarebbe arrivato qualcosa di buono, anche il caffè alla macchinetta.
    Quando Martino ti faceva posto in qualche ambito della sua vita era un dono grande, prezioso. Lui aveva addosso qualcosa di speciale. Qualcosa che ti poteva anche far stare male perchè era inafferrabile, a volte difficile da comprendere. Lavorare assieme era bello da una parte ma difficile dall’altra, il mondo universitario è molto competitivo, da fuori cercano di metterti uno contro l’altro e ci si può far stritolare dal sistema o agire come equilibristi tenendoci stretti tra di noi per non cadere. Questo eravamo noi, equilibristi.
    Un giorno Martino mi ha invitata a casa sua, a Rovigo, di nuovo un grande regalo, ho conosciuto la sua famiglia ed ho capito molto di lui; la sua stessa casa era un viaggio nell’intensità delle espressioni, nella rappresentazione con forme e colori di realtà filtrate, rielaborate, a metà tra verità e sogno. E questi genitori, il padre da cui aveva preso parte dei lineamenti e l’ironia, la madre da cui aveva preso lo sguardo e la dolcezza. Ho conosciuto i suoi compagni di teatro, altri viaggi, altre emozioni, altre visioni di realtà filtrate nella dimensione del recitare vissuto. Mentre racconto mi sembra che tutto ciò sia successo ieri, il tempo si confonde. Ho scritto tanto su quello che è successo, ho condiviso con gli amici di quel tempo, Franceschina che era ad Isernia con loro il giorno dell’incidente, Francesca, Simona, Federica, Ursula. Abbiamo scambiato ricordi e file audio, ciclicamente durante questi anni, come se l’urgenza fosse parlare di loro costantemente, mantenere vivo il ricordo, tenerceli vicini il più possibile. Ho cercato in ogni modo di trasformare gli eventi in una storia da raccontare. La mia storia iniziava con la frase: Martino ha 28 anni, li avrà per sempre nelle foto e nei ricordi. Erano giorni strani, l’alluvione allo scavo, il professore nervoso, ad Isernia, in quel posto bello e terribile, c’era qualcosa di particolare, ma questa è un’altra storia. Il disastro aereo ha inghiottito tutto, come un buco nero feroce, non ha lasciato speranze, ha gettato sulle loro vite un manto nero.
    Su questo non ho più parole. Martino aveva un’idea tutta sua sulla vita e su ciò che viene dopo. Una volta a Parigi si fermò di fronte ad una tela, la caduta degli angeli negli inferi, era rimasto affascinato, gli ho chiesto cosa pensasse della vita e di ciò che viene dopo. Aveva una visione da scienziato, nulla, non c’è nulla. Oppure no. Oppure no.
    Ho pensato mille volte a come sarebbe stata la mia vita se Martino ci fosse ancora dentro, a cosa saremmo potuti diventare, a cosa non sarebbe successo. L’ultimo ricordo che ho di Corinne, il giorno prima dell’incidente, è di lei sul binario che mi saluta piangendo e mi abbraccia forte, “Non so perchè, mi sento come se fosse l’ultima volta che ci vedremo”. Una frase senza senso. In quel momento. Nello stesso giorno, solo poche ore prima, Martino, seduti nel cortile interno del Museo Archeologico di Isernia, mi faceva questo strano discorso: sei una delle tre donne più importanti della mia vita: mia madre, Annalisa e tu.
    Non puoi farmi un dono così grande e poi morire prima che io riesca a capirne la portata. Non puoi davvero farlo. Era come se avesse avuto l’urgenza di mettere a posto. Come fa chi sa di doversene andare e mette in ordine perchè chi arriva dopo possa capire che fare delle sue cose.
    Dopo questo ho continuato un po’ con l’università ma non era la mia vita, sto bene dove sono. Forse non ho nemmeno avuto scelta.
    Martino non avrebbe condiviso, mi avrebbe guardato un po’ sbieco ed avrebbe chiesto: perchè? Non ci si arrende.
    Hai ragione Martino, ma a volte tocca farlo e cercare altrove il modo di essere felici, o quantomeno sereni, comunque.
    Le persone scompaiono ma lasciano fili sottili e resistenti che costruiscono nuovi legami, per me così è stato con la Mery, che vorrei vedere più di quanto riesco, perchè quando siamo assieme è come se ci fossimo salutate mezz’ora prima, perchè ha lo stesso sguardo di Martino, e capisce senza che io debba fare la fatica di spiegare, capisce con l’empatia di chi ti vuole bene. Quando mi sono trovata ad Isernia in quell’apocalisse di sconcerto e bare, ho pensato due cose:la prima era “ora non sono scomparsi, sono semplicemente ovunque, come una pioggia di luce” e la seconda “il mondo di là, se c’è, con loro dentro, mi fa meno paura”.

    Patrizia Anconetani

  • Quella di Gabbris Ferrari è senza dubbio una delle figure più significative e poliedriche del dopoguerra polesano. Artista figurativo ma anche scenografo. Regista e docente di scenografia ma anche politico e animatore culturale del territorio. Il teatro credo però fosse il suo grande amore. Il teatro lirico, innanzi tutto nella casa amata del Teatro Sociale. Teatro della tradizione sempre però da reinventare con gusto personale, negli ultimi anni anche attraverso un suo personale progetto, Minimiteatri. Morto nel 2015, a Rovigo lascia molti spazi urbani progettati e reinventati: il Teatro Studio spazio per la sperimentazione teatrale ricavato da un capannone degli autobus; un nuovo spazio espositivo da una vecchia Pescheria del centro; il Museo dei Grandi Fiumi progettato all’interno del Chiostro degli Olivetani, dedicato alle origini antiche di questa terra. Un Museo che, al di là del suo valore scientifico, sembra un’opera scenografico-istallativa, che mi ha sempre fatto pensare a una sorta di dedica inespressa al figlio Martino.

    Martino Ferrari muore infatti giovanissimo, nel 1993, a soli 28 anni. La sua morte ha qualcosa di assurdo e insieme di eroico. Come giovane ricercatore all’Università di Ferrara si trovò a sorvolare un sito archeologico presso Isernia. Il sito si era allagato e Martino, insieme a due suoi giovani colleghi, era andato a verificarne i danni. L’aereo perse quota e si schiantò al suolo uccidendo tutti i suoi passeggeri. Si pensa alla ricerca come ad uno spazio protetto, sicuro. E invece fare ricerca, implica sempre il rischio di esporsi in prima persona all’imprevisto.
    Martino aveva fondato con me il Teatro del Lemming sei anni prima, nel 1987. Dopo il lavoro del debutto che avevamo firmato insieme, avevamo deciso, come Dioscuri, di alternarci alla regia. Un anno a lui – un anno a me. Quell’anno, 1993, era toccato a lui. E tanto per coniugare l’amore per la scienza con quella per il teatro, aveva diretto, ispirato a Brecht, Galileo. Avremmo dovuto in quell’autunno continuare a provare, perché per noi il debutto di uno spettacolo è sempre stato soltanto l’inizio di una ricerca. Ma non c’è stato il tempo. La sua ultima regia mi ha lasciato così con un senso di incompiuto, di non ancora finito.
    Se penso oggi a molti dei miei lavori successivi credo di aver sempre cercato di dare un certo spazio all’indeterminatezza, lasciandomi attraversare dall’assenza, come se fosse possibile far riapparire per un attimo, come per magia, anche questo mio perduto Dioscuro.

    Questa sera alcuni amici condivideranno, in presenza, parole, poesie, musiche, frammenti di teatro che evocano o che sono appartenuti al vissuto-poetico teatrale di questi nostri due amici, assenti.

    Massimo Munaro

  • Frequentavamo insieme un corso di teatro al Don Bosco, condotto da tal Luisio Badolisiani. Io tutto l’anno, Martino, solo qualche lezione, ma sono bastate! Pochi giorni dopo la prima, stavo passeggiando presso casa, si ferma una macchina, e scende proprio Martino che mi invita a salire. Ci eravamo visti una sola volta, ma mi salutò come fossi un vecchio amico, e per lui, evidentemente, lo ero già! “E ora, dove mi porterà quasto sconosciuto??” pensavo, coi miei 15 anni che mi facevano ancora sentire piccolo e insicuro. Comunque scelse con cura la musica da inserire nell’autoradio (in seguito ho capito che evitò The Wall dei Pink Floyd perchè non adatto ad un ragazzino, o alla situazione, ma avevo il vinile già da cinque anni), e scelse Breakfast in America dei Supetramp…Che ascolto ancora adesso…per dire!!

    Sempre al don Bosco, durante le pause, scherzavamo prendendo come esempio i gatti di vicolo miracoli. All’epoca, facevano una specie di Candid Camera, dove ad esempio andavano presso un’edicola, e chiedevano “Lei ha riviste porno?” e l’edicolante: “Si, certo” e loro “Si vergogni!! Ma lo sa che contengono i bambinelli della fetecchia??” Ecco…per noi, quello dei gatti, all’epoca, era un esempio di comicità dissacrante e liberatoria, e volevamo appropriarcene in qualche modo…certo però…’sti bambinelli della fetecchia…ora si stanno prendendo tutto…vabbè…

    Una sera, prima di cena, sempre Martino, mi vede (io ancora “non lo conoscevo” lui ormai era “amico da una vita”), parliamo del più e del meno, e viene a sapere che frequento il corso di percussioni al conservatorio. Forte di un monologo per sole voci e percussioni, visto la sera prima su Rai3 (e lo vidi pure io), mi disse che potevo fare anch’io la stessa cosa, e da solo. E che ci vuole??

    Lo vidi dopo un pò di tempo mentre provava con il Lemming (forse Il Galileo delle Api), e quindi ci conoscevamo bene, anche da parte mia. Mi chiese cosa stavo facendo, e io risposi quello che rispondono tutti, da queste parti: “A Rovigo c’è poco, ci sono poche possibilità di fare qualcosa di interessante, ecc.” Però Martino Ferrari non era “tutti”, e per almeno due minuti, mi elencò TUTTO quello che poteva esserci di interessante tra Rovigo, Ferrara, e dintorni; era quasi incazzato.

    Non voglio essere prosaico, ma ricordo con affetto la sua amicizia disinteressata, la sua propositività, la sua vista lunga, il suo guardare oltre. C’è davvero bisogno di persone come lui, proprio in un piccolo centro come Rovigo. Proprio qua che c’è molta disillusione, mentre lui era pieno di entusiasmo…concreto! E lo ricordo anche con il sorriso sulle labbra (Maledetti bambinelli della fetecchia!)

    Riguardo Gabbris, non ho molto da dire
    Cioè, l’ho incontrato così tante volte, mi ha lasciato così tanto, che era mio zio. Ho chiesto anche ai miei genitori, e hanno confermato che si somigliano.

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