DAL 3 AL 12 FEBBRAIO 2023 – TEATRO STUDIO | Rovigo
In un’epoca di pensieri deboli e di fragili idee sul teatro, questo lavoro implicita la necessità di un ritorno al senso originario e profondo dell’esperienza teatrale.
Il teatro, al contrario di quanto comunemente si pensa e si pratica, non nasce come mera rappresentazione ma è, prima di tutto, accadimento: l’evento, cioè, condiviso da almeno un attore ed uno spettatore, in uno spazio e in un tempo comune.
Se per i greci Dioniso era il dio del teatro, lo era per la sua capacità di instaurare, attraverso il teatro, il regno della con-fusione fra realtà e illusione. Da qui il noto paradosso che vede la tragedia operare «un inganno per cui chi inganna è più giusto di chi non inganna e chi è ingannato è più sapiente di chi non è ingannato» (Gorgia, B 23 DK).
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8 Febbraio 2023, Rovigo.
“ (…) il bello è qualcosa che supera lo stretto recinto del nostro Io, delle nostre preferenze, delle nostre identità. Qualcosa che provoca anche dolore (…).
Il dolore al cospetto del bello, è ugualmente anelito verso ciò che il bello promette. Si tratta di un anelito, di una tensione verso un’altra condizione dell’essere (…), che ha a che fare con l’ignoto e con l’enigma.
(La bellezza) (…) è erotica, perchè l’eros riguarda la tensione e il desiderio.”
“ La bellezza è una Sfinge, un enigma, un mistero che ci esaspera in modo doloroso”
“(…) Esiste la ricerca di quello stato di grazia dato dall’esperienza della bellezza.”
In questi termini dico che Edipo, tragedia dei sensi per uno spettatore, sia bello.
Per prima cosa uscita dal teatro, ho pensato di non essere stata ad uno spettacolo, né tanto meno di averlo visto, bensì di aver appena vissuto un’esperienza. Subito dopo ho rettificato questi pensieri dentro di me: posso dire “spettacolo”, perchè il “guardare” c’è stato sempre. Il guardare è stato interno ed esterno. In Edipo, lo spettatore produce immagini ma soprattutto diventa attore dell’azione. Esperisce la sua condizione, si muove nel mito, è guidato insomma nella sua stessa storia. Vive delle condizioni che io, in modo molto personale, avrei voluto avvertire per un tempo più prolungato. Non capisco se questo desiderio sia dato dalla seduzione delle immagini/contesti/stimoli o dalla reale necessità di “averne ancora”.
È successo che il teatro ha portato lo spettatore a viaggiare dentro se stesso, ma concretamente: preso per mano e condotto tra i suoi universali.
Quando prende la mano tesa verso di lui, lo spettatore firma un patto di fiducia e insieme di “gioco”. Per questo anche se ha paura non scappa. (Mi chiedo se negli anni sia capitato, se qualcuno per paura abbia espresso la volontà di andare via.) Accetta il compromesso di vivere quella storia insieme agli attori. E dov’è il confine?
Quasi subito mi trovo catapultata nella cornice teatrale dove la distanza interpersonale non è la stessa della vita quotidiana. Qui si oltrepassa perchè insieme, attore e spettatore, abbiamo fatto un patto: tu attore me lo hai proposto e io spettatore ho accettato. Inizialmente è stata un’invasione, poi paura, poi desiderio. Fino a voler continuare ancora.
I profumi sono rimasti impressi sia sugli abiti, sia nella memoria. Il primo in particolare: agrumato e dolce, capace di arrivare fino al gusto. Potrei elencare tutto ciò che mi è rimasto ma mi soffermo su due cose in particolare. La prima: da bendata o ad occhi chiusi, sono stata pervasa da una terribile bellezza. Gli abitanti del mio buio erano terribilmente belli poiché scatenavano uno stupore piacevole e pauroso, attraente e doloroso, così come la meraviglia per il mondo o per tutto ciò a cui sfugge una razionale spiegazione. La seconda: nell’ultimo abbraccio ho pianto. Ho rotto finalmente il mio velo di resistenza di fronte alle cose, quella specie di schermatura che si erge spessa senza scampo alla caduta, che mi difende e mi conduce a testa alta nel mio mondo. In quell’abbraccio si è sciolta lasciando spazio al suo centro fragile. Così ho abbracciato il fallimento e la speranza.
Edipo è arrivato in un tempo in cui per me è necessario accogliere la debolezza. Mi sono sentita debole e cieca e per questo vi ringrazio.
Mariachiara
Piacere e vergogna
Piacere o vergogna?
Piacere della vergogna
Piacere dopo la vergogna
Per (ri)trovare delle parole ho dovuto ripercorrere mentalmente le vie mostratemi dal mio corpo guidato – che non era più mio? mi chiedo -; le domande a cui non ho risposto – forse per la mia incapacità, o l’incapacità, nelle cose vissute e non pensate, di unire voce e mente -; le vie che ho scelto, e le vie che non ho scelto.
Abbattere la muraglia dell’attore intoccabile pone delle questioni quasi morali, come se si aprisse un varco proibito – il meccanismo di fiducia è quasi immediato. Ma chi sono stata, io? Ho mosso le mie mani, ho morso la mela, tutto per mia volontà o per quella delle possibili aspettative? E come si sentono, dentro, le aspettative? Sono come profezie? Cosa ci muove nelle scelte che compiamo: un senso di condiscendenza o il piacere che ne ricaviamo?
Mordere la mela era l’errore, l’errore che sapevo, in fondo, di aver commesso – eppure, in quel momento, quasi me ne compiacevo.
La colpa si muove nel petto come il pianto che ne consegue. Come Edipo, io non so da dove venga, non mi è stato rivelato per davvero per la scelta che ho compiuto. Ripercorro la strada fin qui.
Il vortice di emozioni che fa nascere un’esperienza di questo tipo è, per me, paragonabile ad un evento mistico, potenzialmente inassimilabile o addirittura inaccessibile, che mentre si vive difficilmente si comprende, ma che lascia il suo alone, il suo fiato caldo, la sua presenza, sull’intera persona. Corpo e mente che, quasi, invecchiano.
Con tutta la mia umana stoltezza, vi ringrazio profondamente.
e la voce ripete…
“Di chi è lo sguardo che guarda con i tuoi occhi?”
“Quando pensi che vedi, chi continua a vedere mentre stai pensando?”
L’entrata, accompagnata dal caratteristico odore dell’infanzia del borotalco mi ha catapultato subito agli anni in cui più degli altri è presente un contatto fisico con la madre.
Come nella mia esperienza personale, nello spettacolo ho trovato una rigida dicotomia tra la dolce figura della madre e quella del padre, la prima consolatrice e la seconda incolpatrice e generatrice di timori e paure.
Durante gli abbracci disteso per terra mi sono sentito a casa, come se il contatto con i genitori che si ha da piccoli non fosse mai scemato e avessi la possibilità di essere ancora consolato e perdonato da qualcuno.
I sensi di colpa per l’assaggio della mela sono stati il negativo che mi hanno fatto apprezzare il positivo, ovvero l’abbraccio commuovente a leggo, senza i quali sarebbe stato distaccato e impersonale.
Il più incisivo e impressionante tra gli spettacoli del lemming da me visti e probabilmente quello che mi porterò dentro con più sentimento e consapevolezza.
Oggi sono stato Edipo, ho anche giudicato Edipo e ora c’è Edipo dentro di me. Ma io sono Edipo ? No, o forse si, sicuramente quello che Edipo ha provato, quello che io ho provato, è una parte di me.
Non credo chiamerò questa cosa rappresentazione teatrale, è una trasmigrazione dell’anima in un’altra dimensione. Non ho visto qualcosa, ho vissuto. Quello sento dopo questa esperienza è una amplificazione della mia anima, come se fosse gonfia di cose che già avevo ma che essere Edipo ha portato a potenziarsi.
Le risate, le voci, i respiri mi hanno fatto affondare nella mia interiorità, e prendere contatto con cose che sono nascoste nel nucleo forte del mio io.
Non riesco a dire bello, non è quello che penso perché banalizza tutto ciò, riesco a dire solo grazie per avermi fatto vivere ciò che non avrei mai vissuto, o almeno non con questa intensità.
Sono entrata in un sogno, un sogno in cui c’era una guida, questo sogno aveva qualcosa da comunicarmi e tutto quello che c’è stato nel mezzo mi è sembrato il percorso necessario affinché il messaggio arrivasse, non so qual’è il messaggio, non ha raggiunto la mia parte conscia, ma ha lasciato un seme, un’esperienza.
Parlo di messaggio perché ho avuto paura, sono stata costretta ad infilzare un cranio, ho vissuto un amore avvelenato, ma in tutto questo non ero mai sola, non era qualcosa che accadeva contro di me. C’era una costante polarità, sempre, un senso di protezione anche nei momenti più angoscianti più violenti. E questo mi ha portata un po’ a pensare adesso che quella protezione in fondo è l’accettazione, di quello che succede, per quanto tremendo. Intorno a me c’era una presenza che mi faceva accogliere quelle atrocità. E poi un incredibile senso di abbandono. Abbandono verso qualcosa che non puoi controllare, che ti travolge. Ho un immagine che non dimenticherò, ho pianto fra le braccia di una donna che mentre mi cullava mi ha detto ‘non cercare di capire’. Mi porto questa frase, questo momento, in tutta la sua potenza.
Una cosa incredibile è stata anche che ad un certo punto, il sentire per me era completamente slegato dall’ azione che lo generava. Ricordo moltissimi colori, è come se tutti i sensi si fossero mischiati, non sapendo quasi più cosa veniva da dove.
Edipo è stato un viaggio, ho vissuto direttamente sulla mia pelle e questo è stato sconvolgente. Mi ha svuotata, quando sono uscita sono rimasta in una zona di mezzo per un po’, come dormiveglia, una zona confortevole che ti abbraccia, che non vuoi lasciare, che godi fino all’ultimo. Un abbraccio dopo un pianto.
Grazie
Per una persona come me, lontana dal mondo del teatro (soprattutto quello sperimentale) è stata un’esperienza incredibile. È stato un viaggio onirico che mi ha catapultato in un’altra realtà per una buona mezz’ora e ancora non sono sicuro di essere tornato.
È stato bellissimo essere lo spettatore-protagonista di quest’opera. Se essere spettatore di un’opera ti regala emozioni, questo lo eleva all’ennesima potenza.
Tantissimi complimenti al regista e agli attori, stupefacenti.
Grazie per quello che mi avete regalato
Premetto che conosco e apprezzo il Teatro del Lemming da poco più di 4 anni.. e che ho iniziato la Tetralogia alla rovescia.. dal Viaggio di Odisseo.. a novembre del 2019 .. presso il Teatro Julio Cortazar di Pontelagoscuro sede degli amici di Teatro Nucleo.. detto questo.. chiaramente l’emozione di entrare da solo.. al buio inizialmente.. poi addirittura bendato… calore del corpo caldo della prima donna.. che non è poco.. per chi è single come me.. e perché dopo 3 anni di Covid.. i contatti umani si sono quasi del tutto annullati.. comunque sia un misto di emozione.. affetto.. paura di cadere ad un certo punto.. poi sorretto.. ma visto il mio peso specifico.. ho avuto comunque la percezione che le attrici probabilmente non sarebbero riuscite a tenermi in piedi.. emozioni che crescono.. tensione.. mi fanno stendere.. e mi sento avvolto.. ovattato.. gli abbracci e il caldo contatto femminile.. mi sento protetto.. e anche se un po’ mi sento a disagio.. e provo vergogna..se da una parte mi ha piacevolmente eccitato ed emozionato.. dall’altra mi ha fatto vergognare atrocemente.. e avrei voluto scappare.. ma cosi non è stato.. anzi.. mentre ero steso.. al buio.. e bendato..abbracciato a due corpi femminili.. caldi e formosi.. avrei voluto rimanere così in silenzio per ore.. forte tensione nella parte del coltello.. nei pezzi di mela.. lanciati.. a proposito io ho scelto di mangiare la mela.. e un po’ di tensione quando sono stato tipo colpito da una specie di frusta.. in faccia.. ma niente di che.. lo specchio finale.. mi ha fatto pensare.. e le due figure.. non so.. ero molto in dubbio.. ma alla fine ho scelto la figura più rassicurante… e spero di riuscire a condividere il resto della tetralogia.. fino A colono..
Fate un gran lavoro.. siete encomiabili.. mi spiace che non venite seguiti da un pubblico più numeroso.. e pure da fuori città..
Evviva il Teatro del Lemming!!!
Ho conosciuto la storia di Edipo per la prima volta al liceo. Ho subito notato i messaggi importanti rinchiusi all’interno e le riflessioni profonde che ti porta a fare. L’ho studiata e ho risposto alle domande delle interrogazioni. Ma viverla ed essere Edipo è tutta un altra cosa. Essere Edipo vuol dire provare i suoi sentimenti che sono i tuoi, le sue colpe che sono le tue. Vuol dire capire le cose ma un grandino più in profondità.
Proprio come nei sogni, è difficile stabilire se ho vissuto un’esperienza di un’ora o di cinque minuti. Frammenti di vesti bianche, odore di borotalco nell’aria, polvere sotto i piedi, mani come culla e come serpi. Messaggi nell’aria come oracoli o verità lontane, che vorresti riuscire ad afferrare ma di cui non hai che un flebile ricordo.
Tutto ha il sapore dell’onirico, e proprio in virtù di ciò non c’è giudizio sul perchè o sul come. Le immagini, i sapori, i suoni vengono accettati (o respinti) con la ragione irrazionale del sonno. Il mio corpo ricorda un sogno, non uno spettacolo, ma questo non lo rende meno vivo, anzi: proprio come nei sogni, ciò che mi accade è sempre molto reale, e per questo spesso perturbante.
Dai sogni per fortuna ci si risveglia, e anche qui l’accompagnamento al “risveglio” avviene con cura e delicatezza, senza necessità di dover aggiungere nulla di più a quello che è (o non è) successo.
Spengo il cellulare. Buio. Un Acheronte mi guida e mi fa spogliare degli oggetti che caratterizzano la mia vita quotidiana. Vago a passo discreto e insicuro. Dietro l’angolo si apre fioca la luce di una candela che illumina uno spazio a me ben noto ma che ora appare completamente diverso, come in sogno quando sai di essere in un luogo familiare ma chissà perché non lo riconosci. Un braccio teso, una figura angelica, materna e allo stesso tempo come una sorella, che dolcemente mi guida verso il buio più totale, con quella consapevolezza di chi sa che qualcosa di terribile sta per accadere…ma all’improvviso ecco, una luce, così fioca eppure in quella oscurità così potente! Una figura di oracolo sta, mi aspetta, percepisce la mia presenza. Mi tocca per riconoscere che sono io, quella alla quale una profezia deve essere annunciata, con fiato mortale, inesorabile. Cosa mi attende ora? Vengo bendata, non ho più l’uso degli occhi eppure compio un gesto rapido, forte, improvviso, talmente inatteso che la mia mano resta immobile, irrigidita. Che cosa ho fatto? Cammino lentamente verso il mio enigmatico destino. La sfinge mi parla, bestia feroce, calda, carnale e non potendo rispondere vengo risucchiata da un vortice, sono dentro a un uragano di rabbia, ferocia, follia, un vento gelido mi accarezza il viso. Procedo confusa, so di aver compiuto qualcosa di terribile, ma cosa? Improvvisamente il caldo e il tepore di un ambiente quasi infernale mi avvolge. È piacevole. I miei piedi avvertono il morbido, sono in un ambiente familiare, accogliente, un divano, un salotto di casa…ma all’improvviso spiriti mi circondano, mi chiamano, cosa vogliono da me?! Sono ovunque. Brividi freddi, congelati mi scorrono lungo la schiena. Teste volteggianti fatte di aria e alito mi circondano, mi perseguitano! Poi un ricordo, non so come, sono sdraiata nel mio lettino, sono piccola e voglio che papà venga a salutarmi, il mio papà, sappiamo che è il nostro momento, ma la mamma non vuole e questo lo rende ancora più eccitante. È un amore clandestino il nostro, mi fa anche solletico tanto mi stuzzica, mi provoca, mi da i brividi…ma la mamma si accorge! Che cosa ho fatto?! Ho mangiato il frutto del peccato, l’ho fatto! Ancora sento l’ebrezza sulla pelle e il suo sapore in bocca! Poi la calma prima della tempesta, una nenia mi tranquillizza, mi culla, una musica che viene da lontano, un abbraccio che mi è materno, una voce così vicina da sentirne il calore…poi non so come il mio corpo si muove (ho ancora un corpo io?) prima lentamente e poi più velocemente tanto velocemente che vado a sbattere contro un corpo che riconosco e non riconosco allo stesso tempo. L’ho già incontrato? Quando? Lo tocco ma piano per capire di chi è. Poi la fustigazione, devo espiare la mia colpa, è giusto così, la subisco passivamente senza ribellarmi perché so che è giusto, io ho sbagliato, anche se non volevo, non c’è volontà di compiere quello che ho compiuto, ma l’ho fatto perché mossa da qualcosa di più grande di me. Vengo sbendata ma non voglio aprire gli occhi, non voglio. Non so che troverò davanti, non so se sarò ancora capace di vedere come prima. Lentissimamente li apro e le mie pupille faticano a mettere a fuoco quella che sembra l’immagine di una vecchia. Quella vecchia che fatico a riconoscere ha qualcosa di familiare…qualcosa di mia madre, forse di mia nonna…forse di mio. Mi sono appena ritrovata in quell’immagine così diversa da come mi ricordavo che subito compaiono due figure ai miei lati. Mi chiamano, le guardo a lungo, prima quella bianca, conosciuta, poi quella nera, ignota e terrificante, poi di nuovo l’una e ancora l’altra per un’infinità di volte. Mi fanno capire che devo andare, devo fare una scelta. D’istinto vado dalla bianca che però non mi abbraccia, mi manda in un’altra direzione e finalmente la ritrovo, quella sorella o madre che mi ha abbracciata all’inizio di questo incubo! Tutto è finito? Sì, finalmente esco dal labirinto. Ho solo una domanda in testa. È stato un sogno o è davvero accaduto tutto questo?
Cari Amici del Teatro del Lemming era molto tempo che aspettavo di assitere a “Edipo” tragedia dei sensi. Di questo spettacolo avevo sentito parlare in diverse occasioni e in me si era creata curiosità e un po’ di timore poiché sapevo che non è un lavoro teatrale “tradizionale”. Sicuramente le mie aspettative positive sono state confermate. Conosco la tragedia sofoclea e fin dall’inizio ho compreso che il rapporto attore- spettatore corrisponde al rapporto tra Edipo e il mondo che lo circonda. Edipo-spettatore è chiamato a fare un celere viaggio dentro la sua vita, privato della vista. La cecità, tema importantissimo nel mito in quesitone, spinge gli altri sensi ad essere più presenti e, grazie ad una serie di stimoli esterni provocati dagli attori, lo spettatore vive sul suo corpo e all’interno della sua anima quello che Edipo ha provato davanti alle terribili vicende accadute. E’ inevitabile durante tutto il viaggio fare un paragone tra la propria vita e quella dell’eroe greco e pensare, soprattutto alla propria infanzia, che appare come un periodo di serenità e perfezione. Lo spettacolo ti apre gli occhi: comprendi che quel paradiso terrestre non è più presente, nella vita devi compiere scelte e pagarne le conseguenze. Il pensiero principale con il quale ho attraversato le varie parti del viaggio è che il tempo passato non torna più: ciò che abbiamo vissuto è finito, il nostro sguardo interiore lo dobbiamo rivolgere al futuro. Per poter compiere tale passo dobbiamo “crescere”, abbandonare l’infanzia, luogo sicuro e protettivo e prendere coscienza di ciò che siamo, accettando le gioie e i dolori che la vita ci pone di fronte. Nel finale, davanti ad uno specchio, ti vedi creciuto e con lo sguardo provato dalle soffenze, le stesse che appena termini il viaggio ti fanno scendere lacrime liberatorie e catartiche. Non siamo perfetti, ma posssiamo provare a conoscere meglio noi stessi.
Grazie per quello che mi avete donato.
L’esperienza con Edipo mi ha profondamente segnata. Ho sentito, finalmente, rompersi un confine ed essere attraversata da qualcosa di umano, in un mondo dove, quando vai al teatro, tutto trovi tranne che esseri umani.
Ecco: Umano lo definirei, e per questo animalesco, bestiale.
La genialità dell’opera sta nell’assoluta unicità dell’esperienza. E’ come una gemma preziosa che la natura crea, impossibile da riprodurre. Per quanto gli attori percorrano un percorso sensoriale più o meno uguale, lo spettatore ha la possibilità di creare un immaginario personale e unico. Il fatto che lo spazio e tempo siano totalmente affidati agli stimoli sensoriali lascia davvero molta libertà allo spettatore, che ha una centralità assoluta. La prova di questo per me, infatti, è che si tratta proprio di uno spettacolo che non può esistere senza lo spettatore, che si ritrova anche ad essere il protagonista. MAI VISTO UNA COSA SIMILE!
Oltre la sensorialità, mi ha affascinata e interessata parecchio l’immagine dello specchio e la responsabilità di scelta che viene affidata al pubblico. Il modo in cui “Edipo” chiama in causa lo spettatore è estremamente diretto e pone lo spettatore in una posizione impossibile da rifiutare. Penso che sia un modo estremamente funzionale per svegliare le coscienze assopite, oggi, in un mondo in cui è sempre più difficile comunicare e catturare l’attenzione delle persone.
Tragedia dei sensi per un solo spettatore, IO
“Ah, il teatro del Lemming, lo hai fatto il loro Edipo, vero?”. E lì la mia risposta era: “No, purtroppo no” e mi trovavo di fronte ad occhi sbarrati, labbra che pronunciano sempre la stessa cosa. “Devi fare questa esperienza”.
E no, nessuno, mi ha mai chiesto se l’Edipo lo avessi visto o devi assolutamente andare a vederlo. Parlavano di fare, di esperienza. Leggendo il testo di Massimo Munaro, “La tetralogia del Lemming” e molti saggi accademici su questo spettacolo teatrale fondativo della storia del teatro dello spettatore, avevo intuito qualche cosa e, credo, una parte di me ripudiasse l’idea di rendermi così vulnerabile.
È così che avevo prenotato il mio posto a questa tragedia dei sensi per un solo spettatore e, poi, avevo chiuso in un cassettino della mente sigillato l’idea che questa tragedia l’avrei vissuta da sola, in prima persona.
Tragedia. Tragedia. Tragedia. Una parola che mi risuona potente nella testa nei dieci minuti a piedi che mi separano dal teatro.
Il giorno è arrivato. Il cassettino nel mio cervello esplode e insieme a lui l’ansia di non essere pronta. O meglio. L’ansia di provare qualcosa che non voglio provare ma anche la paura di non provarlo perché mi sono chiusa a riccio.
Tragedia è una parola strana. Molto quotidiana, forse troppo. La usiamo in maniera impropria. Quante volte ci siamo sentiti dire: “Non fare una tragedia”, “Stai facendo una tragedia greca” ma anche “È successa una tragedia per davvero”? Cosa significa per me questa parola?
Da un lato, mi rendo conto di usarla in maniera ironica per minimizzare piccoli sconforti della vita. Dall’altro, mi terrorizza. Non vorrei che una tragedia, un flagello “mi piombasse addosso proprio sulla testa”.
Non sono pronta. Non è tra i miei desideri.
Ne cerco l’etimologia e le prime due opzioni più accreditate legano questa parola ai riti dionisiaci, al culto di Dioniso. Dimensione molto cara al teatro e, più nello specifico, al teatro del Lemming.
La terza proposta etimologica mi atterrisce. Rimanda al ferire a morte. L’ansia sale e il Teatro Studio è immerso nella nebbia.
La mia attesa dietro le porte oscurate da drappi rossi mi permette di assistere ad un caldi tramonto invernale ed inizio la mia avventura edipica in una atmosfera crepuscolare.
Ad accogliermi una sedia, una candela accesa e Massimo Munaro, il regista, maestosa figura rigorosa.
Mi trovo in una specie di corridoio. Seguo le indicazioni del regista. Mi accomodo sulla sedia, tolgo le scarpe e i calzini, mi sciolgo i capelli.
Tre operazioni di una semplicità disarmante che, però, nella mia mente si legano dubito a due situazioni della mia quotidianità.
La prima, quella di rimanere a piedi nudi, mi risveglia la normalità del gesto del rientro a casa, al nido, allo spazio protetto.
Lo sciogliere i capelli, per me, è il prepararsi alla dimensione del riposo notturno e, in un certo senso, anche al sonno, all’onirico.
Il mio viaggio inizia. Incedo a passi lenti sul parquet. Il pavimento è freddo e mi aiuta a rimanere presente a me stessa. La luce è fioca. Raggiungo l’ampio spazio del Teatro Studio e una figura femminile vestita di bianco mi chiama a sé. Il tepore della luce calda delle candele non mi fa avere paura anche se, questa donna, non riesco a vederla in volto.
La guardo a distanza nella sua interezza. Decido di procedere lentamente. Mi avvicino a lei. Non ricordo il suo volto, cosa è successo con precisione, se mi ha toccato il volto o mi ha stretto le mani, se mi ha abbracciata o solo cullata ma ricordo perfettamente la sensazione che ho provato.
È strano perché alcuni dettagli di questo mio vissuto edipico hanno assunto dei contorni sfumati e quasi corrosi dal tempo già dopo pochissime ore dallo spettacolo.
Un po’ come i sogni che mentre li vivi sono così belli e l’unica piccolissima parte del tuo cervello sveglia si dice, è troppo bello, ricordatelo, non fartelo scappare ma, appena finisce, appena ti svegli, te lo sei già scordato del tutto.
Ricordo esattamente di essermi detta che questa cosa non me la sarei mai voluta scordare ma varcate le porte riuscivo a ricordare solo le emozioni provate.
Un senso di accoglienza, di amore, di maternità e di quella piatta calma prima della tempesta.
Lo associo ad un ricordo preciso. Ogni volta che stavo in alta montagna nella baita con mia nonna e le nubi si scurivano non presagendo nulla di buono, lei estraeva l’ulivo benedetto e lo bruciava sull’ingresso della piccola dimora. Un gesto di amore e di protezione che, però, portava in sé l’inquietudine che qualcosa di brutto e devastante sarebbe successo di lì a breve.
Questo ho provato davanti alla bellissima figura immacolata.
La donna mi conduce poco distante in un altro corridoio che, forse, non è così lungo ma a me sembra stretto e infinito, quasi claustrofobico.
Qui ho la sensazione che il tempo si sospenda per moltissimo, la figura vestita di bianco mi conduce al cospetto di una figura vestita di nero con una benda sugli occhi.
La donna mi prende il volto tra le mani e mi parla. Il suo alito sa di alcool, di vino, di grappa. L’odore è sgradevole, a tratti insostenibile. Il suo tocco sulla mia faccia mi spaventa e mi atterrisce. Il presagio nefasto si fa sempre più vicino, le sue parole sono una triste profezia che si rivolge a me. Sono io la vittima del fato inconsapevole o, consapevolmente, delle mie stesse scelte. Ho paura. La donna si sbenda e per un attimo immagine orrorifiche inondano i miei occhi. E se non avesse gli occhi? Se le fossero stati cavati e davanti a me trovassi solo due buchi vuoti e sanguinolenti?
Nulla di queste paure si concretizzano ma i suoi occhi di un azzurro cristallino mi turbano nei pochi secondi in cui li posso fissare perché, ora, sono io ad essere la bendata.
Il drappo di tessuto nero è passato dagli occhi di questa sorta di moderna Tiresia ai miei. Sento una mano che si strige alla mia e mi guida. Il pavimento si raffredda. L’incedere mio e della mia guida è lento e misurato.
Ci fermiamo. Sento una lieve brezza sul mio viso. Qualcosa mi scorre dolorosamente sul palmo della mano. Realizzo subito che si tratta di una lama. Non ero pronta a sentire direttamente un fastidio fisico reale, quasi doloroso ma non ho tempo di sconvolgermi e pensare perché io ora impugno la lama.
Di questo, purtroppo, non ne sono sicura ma credo che un braccio abbia sollevato il mio e mi abbia fatto conficcare il coltello in qualcosa, una cassa toracica, un corpo vivo sul quale prima affondo e poi infierisco spostando la lama verso destra e verso sinistra.
Il coltello esce e qualcuno me la toglie dalle mani repentinamente.
Dico che non sono sicura perché sono certa che da sola, bendata non avrei mai pugnalato qualcuno che non sapevo esserci, che non potevo vedere che non so nemmeno se ho pugnalato quindi, per forza, qualcuno deve avermi guidata in questa operazione ma se oggi ci ripendo la sensazione, di nausea mista a vertigine, di piacere sadico mista ad orrore, falsifica le mie memorie e mi fa credere che io abbia fatto tutto da sola. Abbia pugnalato non solo di mia mano ma anche di mio cuore, di mia testa.
Il viaggio prosegue. Credo che ora le persone che mi guidino, gli esseri anzi siano due, uno per lato scavalco qualcosa, sono su una piattaforma di legno. Giro e giro.
La voce della sfinge, profonda, femminile, graffiata mi sorprende. Ho fretto. Il suo enigma. Il suo volto, la sua bocca. La sto toccando in viso.
So la risposta ma taccio. Il freddo è così persistente.
Scendo dalla piattaforma rotante affrontando un altro gradino.
È strano ero sicura avrei avuto paura, vertigine ma provo un senso di grande libertà.
Di tutto lo spettacolo, l’esperienza, devo ammettere a me stessa che di questa parte ho i ricordi più belli ma anche più confusi. La dimensione dell’onirico e degli inferi è stata raggiunta. Qualcosa si è schiuso. Mi sdraio su di un materasso. Anzi, vengo sdraiata.
Di questo passaggio ricordo un turbinio di voci sovrapposte, scomposte e anche all’orecchio.
Forse alcune sono venute prima di essere sdraiate, non lo so. Altre mi hanno raggiunta al cervello mentre una moltitudine di mani vagava sul mio corpo. Altre ancora mi sono state pronunciate mentre venivo cullata.
Non ricordo con precisione i fatti ma ricordo distintamente il mio sentire.
Prima una paura, un senso di colpa e di vergogna. Ricordo di essermi resa conto che me ne stavo lì tutta ingobbita con le spalle chiuse come a sparire, come a nascondermi, come quando ero adolescente ma, anche, alcune volte oggi che la mia adolescenza è un ricordo un po’ distante.
Una storia che sembra bella. Il bacio della buonanotte che, sinceramente, non fa parte del mio vissuto personale dell’infanzia ma che mi fa pensare sempre a qualcosa di bello e, poi, d’un tratto non lo capisco più perché è come se qualcosa quel momento bello lo avesse sporcato. Un sapore cattivo mi risale dalla bocca dello stomaco.
Nel momento in cui le mani hanno iniziato a vagare sul mio corpo ho vissuto una cosa strana, assurda, irreale. Mi sembrava di potermi osservare da fuori, di essere uscita dal mio corpo. Di potermi vedere dall’alto con i miei jeans, il mio maglione rosa, i miei piedi nudi e cento mani che vagano su di me.
È un po’ come quelli che hanno vissuto orribili traumi o una esperienza premorte e si sono scollegati. A me non era mai capitato e mi sentivo fluttuare.
Il parlare all’orecchio, al musica mi hanno schiuso dei personali ricordi dell’infanzia, un senso di colpa mai risolto, un lutto quando ancora ero troppo piccola per capire cosa significava perdere qualcuno per sempre.
Non pensavo lo avrei ritrovato lì e non penso, forse, nemmeno mi sia stato detto per davvero ma quello che ricordo distintamente è un “non è colpa tua” a me rivolto.
Mi sento cullare. Il materasso credo si stia spostando ma la mia testa è scivolata un po’ troppo nella profondità personale e qualcosa me lo perdo.
Mi riapproprio del mio corpo non tanto quando vengo rimessa in piedi ma quando mi scontro contro un corpo maschile che mi abbraccia. Quel contatto non mi piace, non me lo merito, non lo voglio, me ne voglio andare.
Ricomincio a muovermi sempre guidata e bendata. Un profumo delizioso di borotalco risveglia le mie narici che, a quel punto, si ricordano che poco prima hanno sentivo un meraviglioso profumo di arancia, di mille bucce che a pioggia ricoprivano il mio corpo.
Oggi mi chiedo se questo sia successo davvero, se le stanze che ho attraversato avevano davvero temperature tanto diverse, così diverse da spaventarmi, se il mio naso ha provato questo.
Qualcosa mi colpisce in faccia, mi fa male a dire il vero ma scoppio a ridere non di gioia o di ilarità, ho paura e me ne accorgo solo ora.
Sono stata in tensione tutto questo tempo e questo colpo improvviso mi ha fatta reagire in maniera inconsulta.
Mi colpiscono di nuovo, forse di nuovo, forse ancora.
Camminiamo. Mi siedo e mi viene chiesto di contare fino a 17 e poi svegliarmi.
Lo faccio pedissequamente.
Mi sbendo e ci metto un attimo a mettermi a fuoco perché sì, quella che vedo davanti a me sono proprio io su uno specchio segnato dal tempo.
Mi guardo e non mi sono mai vista così brutta in vita mia, come fanno le persone che mi stanno vicine a non distogliere gli occhi disgustate? Mi guardo e vedo i volti dei miei genitori nel mio. E sono bellissimi, stupendi, mi mancano e vorrei abbracciarli.
Mi guardo e non mi sono mai vista così io, come se mi vedessi per la prima volta e le emozioni iniziano a fluire.
Sento due figure, una alla mia destra vestita d bianco e una alla mia sinistra vestita di nero.
Mi attraggono a sé e io non riesco più a sostenere il mio volto nello specchio.
Scelgo la figura bianca, vorrei che mi abbracciasse, mi cullasse, mi stringesse come ha già fatto nel mio viaggio e così fa. Penso siano state due ad un certo punto ma quando riconosco il volto della donna immacolata che per prima mi ha accolto mi commuovo.
Lei mi stringe e mi ama. Mi abbraccia e mi saluta.
Vorrei restare ancora un po’. Non posso è finita la tragedia dei sensi.
O forse no. Esco e piango.
Non sono triste, sono davvero felice ma non pensavo avrei provato tutto questo, avrei rivissuto il mio vissuto così intensamente.
È teatro ma è vero. Perché ma? Non dovrebbe essere sempre verità.
Ho aspettato molto a scrivere, volevo darmi il tempo di metabolizzare questa esperienza. Sono passate ormai due settimane e spesso, ancora, mi ritrovo a pensare alle scene che ho vissuto in prima persona, a questo mio essere Edipo, ai pensieri che mi hanno frenata in certe situazioni, in contrasto con il prevalere delle emozioni che mi hanno travolta in altri momenti. Sono entrata in teatro con le aspettative di vivermi in prima persona questa tragedia, ma mai avrei pensato di poterne essere così trasportata e coinvolta. La definirei una vera e propria esperienza, di contatto con l’umano e con l’inumano, e soprattutto di contatto con il nostro essere più profondo.
Un’esperienza che mi ha segnata e che mi porterò dentro, ed ora che vi ho conosciuto sono curiosa di vivere anche il resto della vostra tetralogia!
La tragedia del soggetto
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Byung Chu-Lan – La scomparsa dei riti
Mi svesto dei miei gioielli, dell’orologio, del cellulare, del cappotto, sciolgo i capelli e i lacci delle scarpe, lasciando tutto su una sedia illuminata da una candela (elemento che nello spazio rincontrerò e che è sostanza di altre creazioni Lemminghiane) e in apnea alta, su un pavimento freddo, i miei piedi iniziano a brancolare nel buio. L’atmosfera si carica di sacralità e nell’oscurità giungo da una figura femminile, in bianco e con una candela, che mi porge la mano: stringendola accetto il sacrificio. Mi condurrà ad un palmo dall’Oracolo di Apollo, che è insieme Tiresia bendato, da cui riceverò la benda sugli occhi: sono Edipo.
La prossimità con i corpi degli attori è massima, percepiti come presenze, mi incoronano Regina della loro comunità. Sono condotta dentro le azioni di Edipo da partiture di gesto, testo, odore e sapore che svelano una sapienza rituale a cui mi aggrappo. Mi ritrovo catapultata nella confusione dell’inconsapevolezza e nell’enigma dell’identità: chi sono io? Chi e cosa mi muove? Manovrata da forze fuori di me, rifletto (a posteriori) sul destino. La volontà di conoscenza, di vedere, di dare un senso logico, narrativo e sensato, alla realtà o il desiderio ardente di toccare e di piangere a singhiozzi si mescolano alla resistenza e al terrore, sublime, di non sapere cosa possa ancora accadere. Mi abbandono all’errare notturno.
Le scene non seguono la linearità letterale del mito, ma restano fedeli ai personaggi del viaggio, nonché ai simboli e agli archetipi di cui sono portatori. La drammaturgia spaziale è labirintica, l’intertestualità lascia che dialoghino le parole di Sofocle, Proust, Pessoa e Seneca, masticate in dialetto, in prosa e in poesia e tradotti in sussurri e aliti umidi, i quali avvolgono e ingabbiano.
La parola, di per sé finita, si fa vibrazione che rompe il silenzio e convive paritaria con gli stimoli olfattivi, gustativi e tattili. L’esperienza è sinestetica e mi immergo nella vertigine incestuosa del corpo a corpo.
Vivo la soglia tra la finzione e la verità. Perdo l’oggettività e mi affido al sentire e vedere (che in greco aveva la stessa valenza) della coscienza. Vengo trascinata negli episodi del mito, vivo le situazioni da protagonista e riconosco i personaggi del mio viaggio. Mi scontro con la colpa, il peccato, la trasgressione remota, l’eros, l’incesto, mia madre, i miei figli non nati, la culla, la corona, la ninna nanna dell’infanzia, il bacio della buonanotte e la peste. Vedo nitidamente gli altari del sacrificio che, da lì a poco si compirà.
Quando apro gli occhi, verso la fine del percorso, sono nel riflesso di uno specchio e non mi riconosco. È la rivelazione del dubbio e della dualità. Resto nell’immobilità più cruda e desolante mentre appaiono due scelte ai miei lati sotto forma di figure, una nera e una bianca, l’una mi condurrà direttamente all’uscita e l’altra, che scelgo, mi mostrerà la verità della mia Hybris inconsapevole: Laio e Giocasta, Creatori, i genitori, gli Adamo ed Eva che nudi sul letto mi guardano sornioni e mi scacciano via. Come il riflesso allo specchio fugge dalla soluzione: sogno o son sveglio?
Corro verso l’uscita, supero gli angoli e trovo Antigone per l’ultimo doloroso saluto. Il senso del dolore è così vero che rimango in balìa di un abbraccio. Poi l’esilio, poi il ritorno all’ordinario.
Così, l’esperimento di Massimo Munaro di far immergere il comune mortale «nelle acque profonde del nostro mondo interiore« riesce pienamente. La sua indagine archetipica studia lo stimolo e la reazione strutturando una doppia partitura per gli attori e per gli spettatori. I segni teatrali rivestiti di una nuova semantica scenica acquistano lustro e splendore mentre s’intrecciano ai tessuti del corpo, liberando la catarsi.
Un cortocircuito emotivo che sfugge alla comprensione, ma che illumina la propria coscienza sull’enigma eterno dell’esistenza.
Anche l’Edipo non ha tradito le mie aspettative.
Ancora una volta, ancora di più, ci si immerge in una vera e propria esperienza sensoriale, che risveglia il nostro io più intimo, mettendoci difronte alle nostre forze, alle nostre debolezze, alle nostre paure, ai nostri ricordi…la sapiente capacità del regista di rendere attuale un’opera monumentale e la delicatezza con cui gli attori ti leggono e ti accompagnano in questo viaggio fanno il resto.
Un grazie particolare a Katia per avermi incoraggiata a scoprire un genere teatrale che almeno una volta va sperimentato!