DAL 6 AL 12 NOVEMBRE 2023 – TEATRO STUDIO | Rovigo / 19 NOVEMBRE 2023 – TEATRO VILLA BELVEDERE | Mirano
DIONISO E PENTEO-Tragedia del teatro è la seconda parte del ciclo denominato La Tetralogia dello spettatore. Il lavoro prevede un coinvolgimento diretto, drammaturgico e sensoriale di un gruppo di sette spettatori a replica.
Forse non è un caso che Le Baccanti di Euripide si confguri come l‘ultima delle grandi tragedie che ci sono rimaste. Per certi aspetti essa si pone come fne di un genere, e più in generale di un pensiero (quello tragico appunto), ma anche come inizio di quella diversa visione del mondo che sta alla base della tradizione che conduce fno ad oggi e a quel che rimane delteatro moderno. Implicitamente, mettendo in scena come protagonista lo stesso dio del teatro – Dioniso, essa si pone come rifessione sullo stesso statuto di teatralità, sulla sua crisi, sulla sua impossibilità. Il teatro, sotto il segno di Dioniso, si confgura essenzialmente come una relazione fondata sulla reciprocità (io ti vedo mentre tu mi vedi), come rito collettivo il cui skopòs è quello di giungere ad una comunione- dispersione delle soggettività, a favore di una osmosi col divino, col tutto. Di questo teatro non sembra esserci quasi traccia nel teatro di oggi. La relazione si fa qui oppositiva perché lo sguardo dello spettatore moderno, di cui Penteo è il perfetto prototipo, è distaccato, voyeuristico. La tragedia di Penteo ripropone così la tragedia della nostra cultura occidentale che è quella della separazione, della dualità. Che è anche dualità di attore e spettatore, di atto e rappresentazione.
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C’è un dio che freme e trema, tremano e fremono le sue sacerdotesse, le Baccanti; il dio, Dioniso, è furente, è in esilio. Le Baccanti celebrano i loro riti sul monte Citerone. Nella città trionfa Penteo, il dio dell’ordine, della razionalità; verrebbe da dire il dio della tecnica. Ma Dioniso lo sfida, Penteo non può che accettare. Va Penteo, sul monte, a spiare di nascosto i riti delle Baccanti, i riti del succo dell’uva e dell’orgia, la follia e l’ebbrezza, e sarà sua madre, la madre di Penteo, nell’estasi a ucciderlo senza sapere che uccide suo figlio e a portarne in trionfo la testa: ma solo alla fine, in un urlo terribile, lo riconoscerà.
Chi ama il teatro sa che il teatro è nato in quella Grecia che costruiva l’arena nel centro della città.
Chi ama il teatro sa che il teatro è corpo. Sguardo, luce, tenebra, urlo e bisbiglio; vertigine; abisso; culla; silenzio.
In una piccola città come Rovigo, più di 30 anni fa, dei matti hanno pensato di dare vita a un gruppo di teatro nel segno di Dioniso, del rito, dell’orgia sacra, tornando alle radici del mirto e dell’uva, del latte e del vino, della parola sussurrata, gridata, della parola-voce, parola-fiato, della candela e della tenebra. Massimo Munaro, Roberto Domeneghetti e altri hanno fondato il Teatro del Lemming.
Manifesto del Lemming è “Dioniso e Penteo”, lavoro per 7 spettatori, 35 minuti che ne sembrano 5, corpi e sguardi, sguardi e corpi, voci di fiere che sbranano nel buio. Tu (io) spettatore moderno, Penteo annoiato seduto sulla poltrona del teatro in un rito stanco, freddo, sempre uguale; tu (io) risvegliato dal morso delle Baccanti, dalla loro seduzione che si trasforma in grido, dalla promessa d’amore che si trasforma in perfido, e crudele, rifiuto.
Ho visto “Dioniso e Penteo” credo per la terza volta al teatro di Villa Belvedere di Mirano per “Molecole”, la rassegna di teatro contemporaneo organizzata dall’assessorato alla Cultura del Comune con Farmacia Zooè. La prima volta mi ha scosso: un terremoto dell’anima, sensazioni forti, innamoramento e insieme paura; di certo, una delle esperienze che non si dimenticano. Perché il Lemming è teatro dello spettatore: non ci si siede pigri in platea aspettando che il sipario si apra per l’ennesima recita: il teatro siamo noi, veniamo strappati dalla poltrona e gettati tra i corpi. Saremo abbracciati e scacciati; ci illuderanno con promesse d’amore subito cancellate da un ghigno. Non lo meritiamo quell’amore, gli occhi ci trapassano come spade. Sta a ciascuno di noi trovare la strada per meritarlo, l’amore delle Baccanti.
L’ho rivisto per la terza volta negli anni, “Dioniso e Penteo” del Teatro del Lemming, forse la compagnia che amo di più in assoluto. Ricordo la sorpresa della prima volta, la paura, la vertigine. Oggi pomeriggio sono uscito dal teatro di Villa Belvedere e mi sentivo felice. Ero felice. No: le vostre grida, le fauci pronte a sbranarmi, io spettatore-Penteo, non mi hanno spaventato. Ero felice, sono uscito felice. Volevo stare con voi per sempre.
Allora ho capito. In questi anni sono cambiato e sono cambiato anche grazie a voi Lemminghine e Lemminghini, Massimo, Fiorella, Diana, e ora Marina, e Veronica, e gli altri. Grazie a questo mio terzo “Dioniso e Penteo” ho scoperto che mi sono, finalmente, aperto all’altro. E dell’altro non ho paura, non ho paura delle Baccanti. Gli altri sono diventati parte di me. Io sono parte degli altri. Siamo comunità. Gli altri sono Dioniso. Io sono Dioniso.
E sono felice.
Roberto
Visto che mi sono dimenticato, in due anni, di inviarti questo testo che tu chiami poesia, te lo allego ora. E’ quello che ho scritto per l’incontro di Rovigo nel 2021 e ho ripreso qui a Mirano per “Dioniso e Penteo”.
Roberto
9-10 Munaro
211 fantasmi e segni sul corpo
291 la buccia di mandarino
292 il silenzio e il buio
sguardo – occhi negli occhi – toccarsi – la carezza – la penombra – il buio – il sapore – l’odore (c’è un odore del Lemming, una ricetta segreta di spezie) – la musica (musica sacrale: timpani, liuti, arpa, canto, il bisbiglio, poi l’urlo) – il mio corpo in uno spazio che mi sfugge: tu/io disteso, tu/io rovesciato, il tuo corpo mi accoglie/mi getta via, ti cerco/non ci sei più
la fuga
il silenzio
ti tolgono la benda, lo specchio obliquo: chi sei?
ho paura di me
dopo le scale la porta, chiusa, socchiusa, il legno antico
la luce di una candela in una stanza scura
il sapore: il latte, il vino, l’uva, la fragola
risate d’argento al di là di una soglia
c’è sempre una soglia: ho paura/desiderio di varcarla
VORREI SEMPRE ESSERE SMARRITO CON VOI
VORREI SEMPRE ESSERE SMARRITO CON VOI
(Rovigo, 8 settembre 2021, dialogo al Giardino Due Torri)
Gentilissimi,
Ho assistito ad una replica del vostro spettacolo Dioniso la scorsa settimana e sarei felice di condividere con voi alcune impressioni e perplessità.
Leggendo la lettera che avete lasciato allo spettatore un po’ mi metto il cuore in pace perché ho vissuto l’esperienza da spettatore un po’ come una “violenza” e dalla lettera ho avuto, in parte, la giustificazione di questo.
Senza che potessi prendere iniziativa reale sono stato trascinato in tutte le esperienze e visioni ma senza mai prendere veramente un’iniziativa spontanea di azione, sempre trasportato, senza libero arbitrio. Comprendo la necessità di smuovere lo spettatore radicalmente scardinando la distanza con la scena, il suo voyeurismo, ma credo che il tutto sia avvenuto molto rapidamente e un po’ forzatamente nella performance di cui ho comunque apprezzato fortemente gli intenti.
È bello essere presi per mano e condotti alla scoperta, ma poi, soprattutto la parte in cui si assaggiavano i doni per il Dio e ci si stende sul materasso l’ho subita” piu che vissuta o compresa.
Molto forte il gruppo di baccanti, vere protagoniste, ma credo sarebbe stato forte proprio come gruppo rispetto a quello di spettatori, più che singolarmente.
Tengo a dirvi questo perché credo che la vostra ricerca sia assolutamente di valore ma penso che per sconvolgere lo spettatore non serva trascinarlo fisicamente in un contesto in cui gli è poco chiaro il suo ruolo, che torna ad essere passivo un po’ come la visione.
Grazie per l’opportunità
Michele
Carissim*,
sono a scriverVi in merito all’esperienza dello spettacolo “Dioniso e Penteo”.
Il primo pensiero che mi è subito venuto in mente è stato questo: “Dioniso e Penteo” mi ha travolta di più di “Edipo”. Ci tengo a sottolinearlo perché è stato inaspettato: uno spettacolo per un solo spettatore, secondo quello che pensavo, doveva essere essere più dirompente di uno per sette spettatori, dato che lo “spettatore” è l’unico centro di tutta la performance scenica. Invece l’esperienza è stata più annichilente, per diverse ragioni. Innanzitutto, in modo simile all’Edipo, lo spettatore non è più tale, ma anzi siamo finiti al centro della scena: però, quello che mi ha lasciata stupita è che la seduzione della Baccante è stata tale che non mi ero resa conto subito di essere finita sull’altare. Credo che questo sia stato dovuto all’enthusiasmòs che sentivo (ci ho messo un po’ per trovare la parola giusta per definirlo): ero in un vortice magico, in cui non mi muovevo e non osservato la Baccante per un atto di volontà individuale, meditata, bensì perché mi sentivo all’interno di un’unica forza collettiva. Siete riusciti a creare spazio e un tempo altri.
Proprio perché l’ho vissuto come un rito totalizzante, mi sono stupita quando ho capito che la durata totale è stata di circa una mezz’ora: mi soffermo su questo dettaglio perché mi ha fatta riflettere sulla potenza del rito collettivo che, in quanto tale, esula dalle coordinate spazio-temporali del quotidiano. E infatti, se me lo avessero chiesto, non avrei saputo dire quanto siamo stata immersi nello spettacolo: di conseguenza, è stata ancora più traumatica l’uscita, nel paesaggio urbano serale, con i suoi palazzoni e le macchine degli ultimi lavoratori al ritorno dalla loro giornata. È stata una sorta di explicit improvviso, mentre io ero ancora con la testa là, sulla carne di Penteo sbranata dalla madre. Ho fatto fatica persino a capire banalmente quali fossero le mie scarpe. E soprattutto, quello che ho pensato quando sono uscita al freddo, è stato: qui non c’è nessuna Alcesti ad abbracciarmi.
Concludo sottolineando che non so come io sia riuscita a non vomitare (proprio sentivo questo bisogno psico-fisico) sia quando la Baccante mi ha sbranata sia quando le luci sopra di noi ci tenevano ancorati all’altare, mentre avveniva lo spragmòs finale. Il senso non esattamente di nausea, ma proprio di necessità di vomitare, me lo sono spiegata in due modi: un lato l’ho sentita come una liberazione delle forze che, volenti o nolenti, nel nostro quotidiano dobbiamo e vogliamo reprimere. Quindi è come se questa sensazione fosse stata la vitalità del mio corpo, che mi chiedeva di uscire. Dall’altro, sul piano metateatrale, ho espanso questa istanza individuale a un discorso più ampio sul teatro: a mente più lucida, mi sono proprio resa conto che si tratta di una vendetta- come il deus ex machina in Euripide dice- di Dioniso, di fronte a un teatro (quantomeno quello di prosa più “conosciuto”, diciamo,) che non vuole più farsi carico di una funzione politica- nel senso etimologico del termine. Per esempio, il riferimento al tempo che facevo prima mi ha colpito in particolare perché, se si guarda nella programmazione di un qualsiasi teatro stabile, viene sempre segnato quanto dura lo spettacolo. E a me ogni volta scappa una risatina, perché è come se un prete, prima di dire messa, specificasse a che ora finirà: e infatti in una chiesa non dovrebbero esserci orologi, secondo lo statuto ecclesiastico, perché è un rito, come il teatro.
Grazie di tutto. Ci vediamo il 26 novembre.
Con affetto,
Vostra Benedetta
Sublime: terrificante al punto di non riuscire a smettere di guardarlo. Un brivido lungo la schiena; agghiacciante eppure piacevole. Ho avuto paura: paura di quello che avevo intorno, una paura immobilizzante. Paura di quello che vedevo. Paura di perdermi, di perdere le mie ancore; paura che se fossi rimasta un altro pò, sarei potuta diventare una baccante anch’io. E so che, quasi subito, in una parte profonda, recondita, al terrore si affiancava il desiderio: di vedere, di guardare, di essere guardata. Desiderio di essere trasformata.
La fine dell’esperienza è stata sconcertante al pari di una madre che non riconosce il proprio figlio. Più che provare dolore, mi sembrava di non credere ai miei occhi. Al pensiero razionale di essere salva si sta sostituendo sempre di più il sentimento che la salvezza, invece, mi sia stata negata. Perturbante. Chissà se continuerò a cercarla.
Grazie.
Carlotta