TEATRO DEL LEMMING – ODISSEO viaggio nel teatro

DAL 10 AL 16 MARZO 2025 – TEATRO STUDIO | Rovigo
In ODISSEO la relazione diretta attori e spettatori è portata, dopo che i lavori precedenti presupponevano la partecipazione di un numero molto ristretto di spettatori (rispettivamente: uno, sette e due), ad una partecipazione più vasta: 30 spettatori rimandano contemporaneamente anche ad una identità, quella di Odisseo, che, come quella dello spettatore teatrale, non può che darsi come molteplice e multiforme.
In questo senso la percezione complessiva dell’evento, pur premiando la presenza particolare di ogni singolo partecipante, è finalizzata al corpo totale degli spettatori: propriamente il corpo di Odisseo. Il viaggio di Odisseo è un viaggio circolare che presuppone una partenza ed un ritorno: da Itaca a Itaca.
Il viaggio di Odisseo è un viaggio circolare che presuppone una partenza ed un ritorno: da Itaca a Itaca. Questo viaggio possiede di fatto, piuttosto che uno svolgimento lineare, un andamento sincronico: tutto accade sempre contemporaneamente.
Come in un sogno. Nel mare come nel teatro non esiste un centro. E il mare, come il Teatro, non lascia tracce. Ma il Teatro è forse l‘unico luogo al mondo in cui – come per Odisseo il Mare – ciascuno di noi può rincontrare i propri fantasmi e riconquistare così la sua Itaca. Metafora di un teatro che può essere non solo subito ma anche attraversato compiutamente e a cui tornare diversi eppure uguali.
Per il Teatro del Lemming ODISSEO – viaggio nel Teatro, che ripresentiamo a Rovigo dopo moltissimi anni, si propone come ultima tappa di un progetto che si è configurato propriamente come una Tetralogia sul mito e sullo spettatore. Il lavoro prevede un coinvolgimento diretto, drammaturgico e sensoriale di un gruppo di trenta spettatori a replica.
Una donna ha pagato. È entrata, si è spogliata in un buio apparente,
la realtà plausibile improvvisamente le è crolla addosso.
La donna è uscita, guidata da un istinto divino. Mi sono voltata e l’ho vista. Mi ha salutato con un cenno, sussurrando senza voce:
“Papà è tornato e noi abbiamo pianto.”
La donna è svanita, e i miei occhi non hanno mai visto lacrime.
Silenzio, penombra e lanterne. Ci addentriamo smarriti in un posto che potrebbe avere mille nomi, a cui ognuno di noi ne dà uno diverso. Ognuno di noi con le sue guerre, le sue paure, le sue perdite, la voglia di ritornare a sentirsi a casa.
Come sempre, la compagnia del Lemming mi fa un po’ paura: so come ci entro, ma non so come ne esco. Una cosa è certa, però: ne esco sempre senza parole.
Ripercorrere quegli infiniti bivi, cercare il nostro cammino autentico, vivere la morte e la sofferenza e guardarle negli occhi, vedere davanti ai nostri occhi la distruzione, sentire il turbinio sempre più veloce di voci che ti stordisce e disorienta, sono tutti elementi senza tempo, archetipi che questi attori straordinari rappresentano nell’Odisseo, che fanno parte delle nostre epoche passate, come di ora, in guerra contro noi stessi.
Il messaggio che lascia è forte e chiaro: da un lato c’è il cammino autentico, quello che rispecchia i nostri valori, le nostre passioni e la nostra verità interiore; dall’altro, l’illusione della felicità, che può apparire attraente e rassicurante, ma spesso è una scorciatoia che ci allontana dal nostro vero cammino.
Irene
Chi sono io?
Il mio nome lo conosco. Ma se non avessi un nome a cui aggrapparmi con cosa risponderei a tale domanda?
Chi sono io, in un mondo in cui non mi sento degno di definirmi un qualcosa a meno che io non sia quella cosa con tutto me stesso, e non la sono? Mi agghindo di interessi di musica, di scrittura, di cucina…Ma non riesco a definire nessuna di queste “passioni”. E laddove vedo passioni, cioè nei confronti delle persone, le scopro tramutarsi velocemente in ossessioni e dipendenze. Chi sono io, se nel momento in cui coinvolgo quello che ritengo essere il nucleo del mio essere lo vedo cedersi pezzo dopo pezzo e scoprire un epicentro di vuoto, abisso abitato da insicurezze accecanti, di pensieri assordanti, di pesi gravanti nel petto come fossero sassi nei polmoni?
Chi sono io, che trovo nell’amore la mia unica vera vocazione, nel momento in cui sento che esso mi consuma, consuma, totalizza, mi sgretola e si sgretola nelle mie mani crepate e, infine, mi chiede di lasciare andare come ennesimo atto di amore sacrificale, e io obbedisco, cosciente di star facendo l’ultimo passo verso il divenire nessuno, per poi, in qualche modo, ricostruirmi e annientarmi, e ancora una volta di più? “Perché lo hai fatto?”, mi urlano. Ma quelle sfuriate non sono per me, poiché, affinché qualcosa possa essere fatta, colui che ne è artefice deve essere qualcuno. Ma io sono nessuno. Ciò che ha ferito era un qualcosa da me proiettato al di fuori. Distaccandosi, non lanciato. Ha ferita, senza che io potessi impedirlo, o forse proprio nel tentativo di farlo. Non la colpa, ma la responsabilità me la prederei, se solo non faticassi persino a riconoscere la paternità di ciò che è successo.
Ecco, dunque, che mi sento un vuoto che aggrega falsi principi, per poi proiettarli al di fuori non nella speranza, ma nella necessitò che qualcuno li accolga, me li riporti e mi dica “sì, questi fanno parte di te”, riassemblandomi nella forma del fantoccio che mi ero rudimentalmente dato.
Eccomi, dunque, approdare di isola in isola sotto spoglie sempre un po’ diverse. E anche quando sono più che convinto di aver trovato casa, proprio nella convivialità di un pasto, insieme ai miei affetti, nel bel mezzo di un brindisi, di sguardi e di sorrisi, come un’epifania avere la consapevolezza che , presto o tardi, ripartirò in cerca della mia Itaca.
Sinceramente è stata l’opera che mi è piaciuta di meno.
S’intende, non per la capacità recitativa, qui è estesa davvero all’ennesima potenza quanto per l’organizzazione..a tratti l’ho trovata ripetitiva, poi molto affollata, ci si scontrava volutamente con gli altri partecipanti anche se il più delle volte ci si girava intorno in un senso di smarrimento continuo.
Senso di smarrimento, appunto, perdita, pianto, disperazione, affetto ma non troppo (nel momento in cui tentavo di consolare, la mano mi veniva respinta), la pazzia nelle scene con la frutta e gli agrumi: ci sono tanti ingredienti su cui però non ho trovato un collegamento diretto.
Due cose salvo però:
la scena finale – un quadro perfetto, una sorta di ultima cena, si beve ben sapendo della precarietà del proprio destino. Mi ha colpito tantissimo il silenzio, perfetto (se non fosse stato per i rumori esterni, sarebbe stato il più importante silenzio che abbia assaporato e vissuto).
La seconda, poi, la coralità della rappresentazione, anche nelle voci, ricordando l’Edipo per un solo spettatore di qualche mese fa (Edipo, Edipo….)
Diciamo che è stata la rappresentazione dei senza: senza luce, senza gli affetti, la perdita, lo smarrimento, la perdita appunto dei propri cari, le vite in sospeso…
Straordinaria poi la nave umana che fluttua nel mare in tempesta: sono rimasto impietrito nel vederla, il coordinamento era massimo soprattutto in questa scena.
Valentino